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11 noviembre 2018 7 11 /11 /noviembre /2018 01:48

Petahr se desesperaba haciendo el amor, aunque disfrutaba del placer de cada caricia de cada beso, de cada roce, lo cierto es que se lo tomaba como una carrera hacia el orgasmo. Se diría que se sentía mas cómodo con la idea de estar satisfecho, disfrutaba más de la llegada que del viaje. 

En cambio Elektra era precisamente al revés, si ponía empeño era para no llegar al orgasmo o llegar lo mas tarde posible. Se sentía enormemente atraída por el abismo de los retorcijones y espasmos, pero contaba con la paciencia para disfrutar al máximo del último tramo, incluso tras el orgasmo continuaba disfrutando de la meta, del regreso a las palpitaciones sosegadas, al olfato, al suspiro.

Sin embargo tales diferencias no les impedían ser amantes perfectos. Incluso cuando uno deseaba masturbarse y el otro no, terminaban de alguna forma ambos libando el perfume del placer. 

Una tarde decidieron que la gata no debería seguir interponiendo entre ellos, sus movimientos sinuosos, su olor, la humedad de su vulva cuando la acariciaba contra sus cuerpos estaba empezando a ser un inconveniente.

Esa noche hicieron arroz con gata, tomate frito y para combatir la culpa lo acompañaron con un trocito del dedo meñique de él y un pedacito del lóbulo de la oreja de ella. Cebolla, ajo, fuego y digestión lenta.

Se fueron los orgasmos y las eyaculaciones buenas de la habitación del piano, Jesús cruzó la vereda.

 

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5 noviembre 2018 1 05 /11 /noviembre /2018 11:18

AMUNÍ

Un uomo elegante, capelli impomatati, accompagnato da due amici in un'automobile, si avvicina ad una casa signorile di un paese; viene presentato ad un anziano assopito su di una sedia a dondolo nel balcone della casa, due guardie del corpo vigilano la sua siesta pomeridiana. Uno dei due amici del giovane ben pettinato sveglia dolcemente don Ciccio, gli dice che è venuto con un paesano emigrato a New York, che importa olio d'oliva in America, gli mostra la lattina con l'etichetta in inglese e gli chiede il permesso di trattare con l'emigrante. Il vecchio capo mafia locale fa cenno al giovane commerciante di avvicinarsi e gli chiede come si chiama. 

- Vito Corleone - risponde il giovanotto, l'anziano sorride,  lo sorprende il fatto che Vito per cognome si è messo il nome del paese e gli domanda: - Di chi sei figlio? - Allora Robert De Niro gli sussurra all'orecchio: - Di Antonio Andolini - Quello che anni prima don Ciccio aveva fatto ammazzare insieme ai suoi fratelli per aver osato opporsi al suo potere. E aggiunge: - Questo regalo è per voi - mentre gli affonda tutta la lama di un pugnale nel ventre tagliandolo sino al torace.

Non ricordo quante volte ho visto quel film, quella scena, una delle scene piu famose del cinema universale, moltissime comunque, e quella notte per la prima volta l'ho vista sapendo che la scena si filmò in un piccolo paese siciliano, ma non a Corleone, e che la Mafia in Sicilia è ben lontana dall'essere quella setta romantica e contestataria che il resto del mondo suppone che sia, così come crede che i pirati erano dei giustizieri. 

Ho anche imparato che la Sicilia è molto, molto di piu che mafia; siculi, sicani, romani, fenici, cartaginesi e greci, è anche ovviamente tutto questo.

La mia amica cineasta, anarchica e attivista della vita, Anna Assenza, oriunda di Vittoria, era da un po di anni che m'incoraggiava a visitare la famosa isola, sopratutto ogni volta che andavo in Italia, mi diceva « Sì, quella città è molto bella ma non sai quanto è bella la Sicilia, devi andarci e percorrerla a piedi». Mi avvertí anche di una certa somiglianza, non di linguaggio ma in quanto a forma di essere, con i cubani, Paese dove sono cresciuto e dove Anna ci ha vissuto per undici anni.

E finalmente, grazie a lei ed ai suoi due amici Peppe De Caro e Tano Melfi, da cinque anni gli organizzatori della Camminata Trasversale nel centro della Sicilia, partendo da una costa per arrivare alla costa opposta si attraversa tutta l'isola a piedi. Quest'anno ho potuto andarci, anche sia solamente 11 giorni, ed ho potuto finalmente conoscere quest'isola, musa dell'immaginario collettivo dai tempi dei tempi. 

Non sapevo nulla del progetto Antica Trasversale Sicula sino al momento in cui seppi che in pochi giorni sarei partito da Madrid per raggiungere Catania. Quello che lessi a riguardo mi riempì di entusiasmo, anche se serbavo un sospetto fugace sulle passeggiate attraverso i miei cervicali, lombari e menischi che imploravano un ricambio urgente. 

Uscito dall'aereoporto sentii che ero approdato in una terra parente della mia anima, la gente sorrideva, solamente gli stranieri andavano di fretta, mi diressi al bar per provare una porzione di pizza, che anche se di qualità “made in airport” era una prelibatezza se confrontata con la pizza del resto del mondo, e mi chiama al telefono Peppe dicendo che sta per arrivare, comparve mentre ordinavo un caffè, ci abbracciammo e salimmo in macchina ed anche se a chi legge sembrerà che esagero, quei primi minuti in cui mi trovo in un paese sono quelli che piu mi raccontano di quel paese, è il momento in cui vedo piu chiaramente gli atteggiamenti, i meccanismi, i riflessi pronti simili e diversi da quelli conosciuti, noto se si prendono cura dei propri effetti personali piu o meno del solito, se vanno di fretta o con indifferenza, se i pavimenti brillano o accettano la loro condizione di pavimenti dove cadono le cose e le scarpe sporcano, gli aromi dei condimenti o la puzza di grasso, gli odori dei profumi, i rumori, l'organizzazione, la guida disciplinata o la guida con destrezza ed autonomia dal codice stradale, mi dice di piu della idiosincrasia dei luoghi  che i vari capitoli dei manuali turistici specializzati. 

E così conoscendoci arrivammo a Vittoria, il paese di Anna, con chi, stranamente, non ci siamo mai visti in carne ed ossa, stavo per conoscere prima i suoi amici che lei, ma qualsiasi lettore appassionato di libri e di racconti sa che è possibile provare sentimenti di affetto, rispetto e familiarità con qualcuno in lontananza. Anche nella distanza del tempo, sono pochi quelli che sento come fratelli dell'anima mia come fu e come lo è Dostoievski, nella solitudine di quella cella in Siberia, ben prima della mia nascita. 

Ho conosciuto l' “arancino” vero, tutte le copie che avevo provato in vita mia non gli arrivavano nemmeno all'altezza dei talloni, e poi siamo andati a prendere Tano Melfi, il fondatore del percorso, come Peppe, un personaggio particolare, dall'animo autentico e genuino, di convinzione di libertà attaccata alla terra, lontano dai canoni richiesti dal “politicamente corretto”.

Di buon mattino, il giorno dopo, siamo andati a prendere Mauro e Tomas, altri due personaggi totali, e siamo partiti su di un furgoncino con il logo dell'Antica Trasversale Sicula in direzione Trapani da dove poi siamo salpati su di un traghetto diretto all'isola di Favignana e Levanzo accompagnati dall'ingegnere e antropologo Gianluigi Perrera, che per due giorni ci fece da guida in un viaggio da sogno per la bellezza di entrambi le isole e le ricchezze archeologiche e storiche.

Io ero stanchissimo perche non avevo dormito bene nelle due notti precedenti, e però ad ogni passo si presentava una storia da ascoltare; in Sicilia è successo di tutto, piu che a Roma, tanto che a volte, in così tanta Storia in così poco spazio e tempo, le informazioni si accavallavano in testa, mischiando navi fenicie di ancore cartaginesi in mani di architetti e saggi greci comandati da romani agli ordini di siculi.

Tutto mi sembrava famigliare ed al tempo stesso ancora piu arricchito dal nuovo amico Peppe De Caro che parlava l'italiano con gesti e musicalità propri dei siciliani. Sentir parlare italiano e portoghese brasiliano sembra star immerso in un racconto, non necessariamente una commedia però sì ai bordi di una risata permanente, una bella lingua, quasi tutte le parole terminano con la vocale, per tanto Martín spesso è Martino o Martin senza l”accento sulla “ì”, potenziando così la “a” e sfuggire al compito di menzionare quella dannata “n”, sola, priva di soggezione, di indicazioni, di biancheria intima. Però ho potuto constatare che il siciliano è molto diverso dall'italiano, “andiamo” si dice “amunì” ed ha persino parole piu simili allo spagnolo castigliano o al portoghese che alla lingua dell'Alighieri. 

Ma la cosa meravigliosa che cominciò a riempirmi l'anima, per una persona come me che lavora in solitario piu di quanto vorrebbe ammettere, fu il sentimento di tribù, di appartenenza, in soli due giorni avevo la sensazione di conoscerci dai tempi dei tempi, percepivo che la piu grande ricchezza della camminata che mi aspettavo era precisamente quello, andare oltre la bellezza, oltre l'importanza della Storia del mondo Occidentale che ebbe quell'isola situata tra i mondi antichi, come lo fu Cuba molti secoli piu tardi, per la sua posizione strategica, la sua bellezza e sensualità.   

Levanzo custodisce la grotta del Genovese, un luogo che si raggiunge attraversando l'isola a piedi e dove si conservano pitture rupestri neolitiche simili a quelle di Atapuerca a Burgos, in Spagna. Ciò dà l'idea dell'assurdità che comporta essere nazionalisti, poichè, nel migliore dei casi, siamo un miscuglio di tutto ciò che ci ha preceduto, un pot-pourri di ogni costume e di ogni formazione, il risultato delle gioie, della felicità, dell'unione di questi popoli antichi; del loro odio non ci è stato tramandato nulla, siamo arrivati sin qui grazie alla fiducia reciproca tra le genti.

Tutte e due le isolette le ho visitate accompagnato dalle risate con Vincenzo, Tomas, tutti i Giuseppe e Adriana, un'architetto di Palermo con la quale non riuscivo a smettere di ridere per le sue maniere, per il suo senso dell'humor e per quel tono tutto suo di parlare. Poi abbiamo dormito a casa dell'artista Momò Calascibetta, dove siamo stati ossequiati con un banchetto di cibo, di amicizia, calore umano e la bellezza del suo lavoro sia pittorico che architettonico; siamo stati chiamati da un programma radiofonico molto ascoltato e tra De Caro ed io spiegammo le linee guida della camminata.

Sino ad ora non avevo ancora dormito nella tenda e nel sacco a pelo che gentilmente mi aveva prestato Claudio Lo Forte, la verità è che non ero abituato a dormire su di un terreno duro, cosa che il giorno dopo avrei constatato poichè iniziava la “camminata” ufficialmente, con tanto di stampa e le autorità dell'isoletta di Mozia che riuniva, pigiata, tanta Storia quanto quantità di zanzare.

Una bellezza gia dalla partenza in barca, la quale avvenne con due ore di ritardo, caratteristica che mi indusse a ridere ed a riflettere molto, a ri- apprendere a rallegrarmi per come i siciliani intendono il tempo, in modo molto simile ai cubani, ma con piu licenze e forse con un latente sostegno  filosofico teorico piu profondo, forse prodotto della saggezza di migliaia di anni, di numerose culture di occupazione, di colonizzazione, di espropriazione e contributi in termini di pazienza e una ben appresa tradizione di cospirazione; all'inizio può risultare scomodo, però fino a quando non ti senti a tuo agio, allora diventa incredibile, il tempo là è per la vita, non per l'angoscia.

La cronologia del viaggio è il minimo, l'humus interiore che dona è il più importante, sia per la vista dei bei paesi,  dei paesaggi, sia per le persone con le quali ti imbatti durante il cammino, come tutti quelli che  ci hanno accolto con uno sforzo e una brillante energia positiva, tale che l'amico ambulante belga Eugene, mi confidò che era allucinato perche mai e poi mai in Belgio avremmo ricevuto tali ricevimenti, "o in qualsiasi posto che ho conosciuto finora" risposi a mia volta.

Ci siamo immersi in sorgenti calde che vengono usate da tremila anni, abbiamo goduto di templi elimy, greci, romani, città da sogno, piccole chiese, vergini miracolose, cibi ancora più miracolosi, le cantine di Vincenzo Fazio, dove il proprietario e sua moglie, che hanno camminato con noi, ci hanno trattato come re e siamo rimasti amici per sempre, questa gola che non permette più il passaggio dell'alcol però ha preso atto dell'aroma dei vini che Fazio ci ha regalato, tesoro liquido, le serate erano impregnate di discorsi, canzoni, ci hanno ricevuto all'inaugurazione di un albergo ristrutturato con una notte di eventi festivi, canti tipici siciliani, mi sono innamorato di uno: "Si Maritau Rosa", mi hanno ricevuto a casa loro Simonetta, Momò, Maria, Peppe, Davide, Luisa e con la loro gentilezza così tante persone che mi sembra ancora come un sogno breve ma intenso.

C'era un capitolo per cani e gatti. In quei giorni ci accompagnavano un po di cani, il campione di tutti i campioni, Pitu, un cane coraggioso saggio e molto vivace senza razza nè legge,  Christian, un camminante silenzioso, tranquillo, del nord Italia, Nina, una cagnolina stupenda, e la simpatica e carina Rose Lyne, che quasi muore ma che grazie all'amore ed all'arrivo di una bottiglia d'acqua con bicarbonato di sodio per farla vomitare si riprese alla grande, Duca, il pastore di Olga, Olga sì, è di Corleone, non come don Vito, un cane pastore che durante il cammino di quei giorni accanto a noi non abbaiò nemmeno una volta. 

I gatti sono liberi, i gatti sono come fantasmi felini.

Nei giorni della passeggiata ha avuto luogo la commemorazione del 9 di ottobre, giorno dell'omicidio di mio zio Ernesto Guevara a Vallegrande, in Bolivia.  

Mi hanno invitato durante quell'intero giorno a un tour di cui mi è rimasto impresso nella memoria la lotta di un essere siciliano eccezionale, Peppino Impastato e l'energia della nipote Luisa Impastato che mantiene viva la memoria e la lotta di suo zio e sua nonna che lottarono per un mondo migliore, che a quel tempo significava porsi contro ad una spietata mafia, più che sposata al potere, era il potere stesso, una mafia che si rubò vite inestimabili come quelle dei giudici Falcone e Borsellino. Maria, di un paese che si chiama Vita, una donna così gentile quanto instancabile, è alla guida dell'associazione Pro Loco nella zona, e tra lei e la cara Agostina hanno organizzato la giornata che è iniziata con una visita nella casa dove vivevano Peppino Impastato e sua madre, un museo memoriale che a differenza di altri musei è ancora vivo, riunendo i giovani valori del quartiere, di paese, della zona e di tutta la Sicilia, così come agli ex compagni di lotta di Peppino, sia quelli della radio che tutti i militanti dell'antimafia. 

Sono stato accolto da Luisa, una creatura divina di grande tenerezza e al tempo stesso di una forza e fierezza interiore che si intuiscono, c'erano i compagni di Peppino, un argentino che fungeva da traduttore per le parole che non conosco e che non assomigliano al castigliano, prima di tutto ho chiarito che non condivido le idee di Castro e dell'URSS, per ragioni che non era il caso di spiegare in quel frangente, ma che comunque mi commuovo per quelli che osavano essere comunisti in una situazione così avversa come quella di quegli anni, e grazie alla sincerità iniziale abbiamo instaurato un dibattito aperto e diafano.

Mi accomiatai dagli occhi azzurro intenso di Luisa e siamo andati a Palermo con due studenti universitari per prendere anche due colleghe, tutti studenti di medicina provenienti da diverse parti d'Italia, che mi hanno portato in giro per la città e da lì siamo andati all'evento di Salemi il quale è stato molto emozionante, dove ancora una volta spiegai che anche se non condividevo le idee e la militanza ammiravo la coerenza di tutti loro. La giornata terminò con una bella mangiata di pizze deliziose e la notte a dormire a casa della famiglia di Maria.

Forse non lo sanno, ma per me è stata una giornata molto speciale, mi hanno sempre disgustato le figure iconografiche e gli idoli che emanano l'obbligo di essere come il Che, di essere un comunista, perche sono stato testimone del gran tradimento di quegli ideali,  pertanto mi prodigo di piu nella critica, piuttosto che rivolgermi a un pubblico simpatizzante comunista; tuttavia tra quelle persone umili, dalla pellaccia dura formati nella lotta, nella solidarietà, persone con valori, mi sentivo in una famiglia etica, una famiglia affettuosa. In Sicilia molte cose sono al contrario, non solo la percezione su Garibaldi, gli italiani dicono che nella punta di Trapani finisce l'Italia, ma seppi che in realtà è da lì che inizia.

Lasciai la Sicilia ad appena una settimana della Camminata Trasversale, che dura piu di quaranta giorni con piu di seicentocinquanta chilometri e trentasette tappe, ma sono partito con il cuore ricolmo di emozioni, il taschino nel petto stracolmo di amici, da Mimma a Vincenzo, da Peppe a Maria, da Angelo a Gaetano, sorrisi, molti sorrisi, serenità dell'anima ed incredibilmente, come dissi a Peppe, un miglioramento alla schiena e alla cervicale, sono andato via con la voglia di non andare ma di tornare, con il desiderio che nella vita, nelle città, intorno a me sia sempre coronato da quella soddisfazione, da quei piccoli dettagli affettuosi per la terra, per il mare, per gli altri e per le cose semplici, pur rimanendo amante delle comodità di un buon sofà non dimenticherò mai quando camminando nel bel mezzo del giorno sotto un sole impietoso arrivammo finalmente in un tratto di strada all'ombra e al poggiare il primo piede sotto quella, la sensazione di piacere, di divertimento, di festa, di gioia che mi sopraffaceva, mi sembravano paragonabili al miglior banchetto, una semplice ombra, ma con alcuni vantaggi, era gratis, salutare e condivisa con i miei simili.

Traducción al italiano de Anna Assenza

 

Partiendo de Mozia, en casa de Peppino Impastato con su sobrina Luisa y foto de grupo de caminantes.
Partiendo de Mozia, en casa de Peppino Impastato con su sobrina Luisa y foto de grupo de caminantes.
Partiendo de Mozia, en casa de Peppino Impastato con su sobrina Luisa y foto de grupo de caminantes.

Partiendo de Mozia, en casa de Peppino Impastato con su sobrina Luisa y foto de grupo de caminantes.

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28 octubre 2018 7 28 /10 /octubre /2018 15:03

Llega un hombre peinado a la gomina y bien trajeado, acompañado de dos amigos en un automóvil a una casona señorial de un pueblo, es presentado a un anciano que dormita en un balancín de un balcón de la casona, dos guardaespaldas velan por su descanso. Uno de los amigos del joven bien peinado despierta con cautela a Don Ciccio, le dice que lo acompaña uno nacido en el pueblo pero emigrado a Nueva York, que importa aceite de oliva desde EEUU, le enseña la lata con las inscripciones en inglés y le pide permiso para negociar con el emigrado. El viejo jefe de la Mafia local,  le le indica al nuevo comerciante que se acerque y le pregunta el nombre:


-Vito Corleone- responde el joven, el anciano sonríe ante la ocurrencia de ponerse como apellido el nombre del pueblo, y le pregunta -¿hijo de quien eres? Y entonces Robert de Niro, le dice al oído el nombre del padre: Antonio Andolini, a quien años atrás Ciccio había mandado a matar junto a sus hermanos por oponerse a su poder,  y acto seguido le dice:- este regalo es para usted- rajándole el torso desde la barriga hasta el pecho con un puñal y hundiéndoselo hasta el mango.

No recuerdo cuantas veces puedo haber visto esa película, esa escena, una de las cimas del cine universal, pero fueron muchas y esa noche por primera vez la vi sabiendo que la escena se filmó en un pueblo de Sicilia pero no en Corleone, y que la Mafia en Sicilia dista mucho de ser esa secta romántica y contestataria que supone el mismo resto del mundo que también imagina a los piratas como justicieros.

También aprendí que Sicilia es mucho, muchísimo más que Mafia, sículos, secanos, romanos, fenicios, cartagineses y griegos, aunque por supuesto también es todo eso.

Mi amiga cineasta, anarquista, y activista de la vida, Anna Assenza, natural de Vittoria llevaba unos años animándome a visitar la famosa isla, sobre todo cada vez que iba a Italia, me decía, "sí tal ciudad es muy linda, pero no sabes lo bella que es Sicilia tiens que ir y recorrerla a pie", también me había advertido aunque no con palabras sino con una forma de ser, que los sicilianos guardan ciertas similitudes con los cubanos, país en que me crié y donde Anna vivió once años, para luego radicarse en Costa Rica.

Al fin se dio la posibilidad de recorrerla gracias a Anna y sus amigos Peppe de Caro y Tano Melfi, organizadores desde hace un lustro del camino transversal por el centro de Sicilia a pie, saliendo de una costa y llegando a la opuesta atravesando toda la isla. Este año podía ir, tan sólo once días pero podía finalmente conocer esa isla, musa del imaginario colectivo desde el principio de los tiempos .

No sabía mucho del proyecto Antica Trasversale Sicula hasta el momento en que supe que iría desde Madrid a Catania en pocos días. Lo que leí al respecto me llenó de ilusión, aunque guardaba un recelo escurridizo a lo de ls caminatas por mis cervicales, lumbares y meniscos que llevan un tiempo implorando un recambio urgente.

Ya en el aeropuerto, al salir, sentí que estaba en una tierra pariente de mi alma, la gente sonreía, sólo andaban con prisa los foráneos, me acerqué al bar a probar una porción de pizza, que aunque fuese de calidad "made in airport" era un manjar llegando del resto del mundo, y me llamó al teléfono Peppe diciendo que estaba llegando, cuando iba a pedir el café, apareció, nos dimos un abrazo subimos al automóvil y aunque al lector le parezca exagerado, esos primeros minutos que paso en un país son los que más me dicen del país, es cuando veo con más claridad las actitudes, los mecanismos, los reflejos similares y diferentes a los conocidos, noto si cuidan sus pertenencias más o menos de lo habitual, si andan con prisa o con displicencia, si los suelos brillan o aceptan su condición de suelos, donde las cosas caen y los zapatos ensucian, los aromas a condimentos o los hedores a grasa, los olores de los perfumes, la moda, los ruidos, la organización y disciplina o la destreza y autonomía en aplicar las leyes de los conductores, habla más de la idiosincrasia que varios capítulos de una guía especializada.

Todo me parecía familiar y a la vez más enriquecido por ese nuevo amigo Peppe De Caro que hablaba el italiano con gestos y musicalidad en la lengua propia de los sicilianos. Escuchar hablar italiano y portugués brasileño, parece estar inmerso en un cuento, no necesariamente una comedia pero sí en el borde de la sonrisa permanente, una lengua bella, casi todas las palabras acabadas en vocal, por lo cual Martín a menudo es Martino o Martin sin el acento en la í, para poder acentuar la “a” y escapar a la tarea de mencionar esa maldita N final, sola, desprovista de sujeción, de indicaciones, de ropa interior.

Pero también empecé a saber que el siciliano es bastante diferente al italiano, "vámonos" se dice "Amuní" e incluso tiene palabras más parecidas al castellano o al portugués que a la lengua de Alighieri.

Y así conociéndonos llegamos a Vittoria, la ciudad de Anna, con quien curiosamente nunca hemos tenido un encuentro de carne y hueso, estaba conociendo primero a sus amigos que a ella, pero todo lector apasionado de libros e historias, sabe que se puede experimentar  sentimientos de cariño, respeto y familiaridad con alguien en la lejanía e incluso en la distancia en el tiempo, pocos son tan mis hermanos del alma como lo fue y es Dostoievski, en la soledad de aquella celda en la Siberia, bastante antes de mi nacimiento.

Conocí el verdadero “arancino”, todas las copias que había probado en mi vida no le llegaban ni a los talones, luego pasamos a recoger a Tano Melfi el fundador de la ruta, al igual que Peppe, un personaje particular, de expresión genuina desde el alma, de convicción de libertad pegada a la tierra, alejada de los cánones que exige la corrección política.

A la madrugada siguiente  recogimos a Mauro y Tomas, otros dos personajes totales, y salimos en la furgoneta con el logotipo de la lechuza de la Antica Trasversale Sicula hacia Trapani, desde donde zarpamos en un ferry a la isla de Favignana y la de Levanzo, de mano del ingeniero y antropólogo  Gianluiggi Pirrera quien nos hizo durante dos días un recorrido de ensueño, por la belleza de ambas islas y por sus riquezas arqueológicas e históricas. Yo estaba reventado porque no había dormido bien en dos noches pero cada paso que dábamos tenía una historia que atender, en Sicilia puede ocurrir más que en la propia Roma, que a veces haya tanta historia en tan poco espacio y tiempo que la información se atiborre en la cabeza mezclando barcos fenicios de anclas cartaginesas manejados por arquitectos y sabios griegos comandados por romanos a las órdenes de sículos.

Pero lo más bello que se me empezó a acumular en el alma, para una persona que trabaja en más soledad de la que le gustaría admitir, fue la sensación de tribu, de pertenencia, en sólo dos días sentí que nos conocíamos desde un tiempo sin medición cronológica, percibía que la mayor riqueza del camino que esperaba era precisamente esa, más allá de la belleza, de la importancia para la Historia del el mundo Occidental que tuvo esa isla situada entre los mundos antiguos y tan deseada como lo fue Cuba unos cuantos siglos más tarde, por su uboicación estratégica, su belleza y sensualidad.

Levanzo atesora la gruta del Genovés, un sitio al que se llega atravesando la isla a pie y donde se conservan pinturas rupestres del neolítico emparentadas con las de Altamira en Cantabria, España. Eso da la idea del disparate que significa ser nacionalista, ya que, en el mejor de los casos,  somos una mezcla de todo lo que nos precedió, un potpurrí de cada costumbre y de cada aprendizaje, el resultado de sus alegrías, de sus felicidades , de sus compañerismos; de sus odios no nos fue legado nada, llegamos aquí gracias a la confianza de una persona en la otra.

Ambas islas las conocí acompañado de las risas con Vincenzo, Tomas, todos los Giuseppe y Adriana, una arquitecta de Palermo con quien no podía parar de reírme, por sus ocurrencias, por su sentido del humor y por ese tono tan suyo al hablar. Luego dormimos en la residencia del artista plástico Momò Calascibetta, donde fuimos agasajados con un banquete de alimentos, de amistad y calor humano, y de belleza de su obra tanto pictórica como arquitectónica, nos llamaron desde un programa de radio muy escuchado y entre De Caro y yo les dimos las pautas de la caminata.

Llegado a este punto aún no había dormido en la casa de campaña y en la bolsa de dormir que gentilmente me prestó Claudio Lo Forte, la verdad es que estaba desacostumbrado a dormir sobre suelo duro, cosa que al día siguiente empezaría a entender cuando oficialmente arrancaba la caminata, con la prensa  y las autoridades desde el islote de Mozia, que reunía, apretujada, tanta Historia como cantidad de mosquitos.

Una belleza desde la misma partida en lancha, dos horas después de lo pactado, característica esta que me llevó a reír y a reflexionar mucho, a re-aprender a disfrutar cómo entienden el tiempo los sicilianos, de manera muy similar a los cubanos, pero aún con más licencias y acaso con un subyacente sustento teórico filosófico de mayor profundidad,  producto acaso de la sabiduría de miles de años, de numerosas culturas de ocupación, de colonización, de expropiación y de aportes en materia de paciencia y una bien aprendida tradición de conspiración; pero al principio puede resultar poco cómodo hasta que al acomodarse uno se convierte en alucinante, el tiempo allí es para la vida, no para la angustia.   

La cronología del viaje es lo de menos, el poso interior que deja es lo más importante, tanto en la valoración de los pueblos bellos, los paisajes, las personas que se cruzan en el camino, como todos aquellos que nos recibieron con un esfuerzo y energía positiva brillante, tal que el amigo caminante belga Eugene, me reveló que estaba alucinado porque jamás en Bélgica nos harían tales recibimientos, “ni en ningún lugar que hasta ahora conozco” le respondí a mi vez.

Nos bañamos en termas que se usan hace tres mil años, disfrutamos de templos elimios, griegos, romanos, pueblos de ensueño, iglesias pequeñas, vírgenes milagrosas, comidas más milagrosas aún, las bodegas de Vincenzo Fazio, donde su propietario y su esposa que también caminaron con nosotros nos trataron como reyes y quedaron como amigos para siempre, esta garganta que ya no permite el paso de alcohol sin embargo tomó nota del aroma de los caldos que nos regaló Fazio, tesoro liquido, las noches eran de charlas, canciones, nos recibieron en hotel refaccionado con una noche de actos festivos, canciones típicas sicilianas, me enamoré de una: “Si Maritau Rosa”, me recibieron en sus casas Simonetta, Momó, María, Peppe, Davide, Luisa y en sus amabilidades tanta gente que me resulta aún como un breve pero intenso sueño.

Hubo un capitulo para perros y gatos, tres perros caminaron esos días con nosotros el campeón de todos los campeones Pitu, un valiente sabio y vivísimo perro sin raza ni ley, de Christian un caminante silencioso, tranquilo, del norte de Italia, Nina, una preciosa perrita de la simpática y linda Rose Lyne, que por poco se nos va y entre el cariño y la llegada a tiempo de una botella de agua con bicarbonato de sodio para hacerla vomitar, salió adelante, y Duca, el pastor de Olga, Olga sí es de Corleone no como don Vito, un pastor que en todos los días que caminó con nosotros no ladró ni una vez. Los gatos son libres, los gatos se acercan al fantasma gatuno.

Entre los días de la caminata tuvo lugar un acto en conmemoración por el 9 de octubre, día del asesinato en Vallegrande de mi tío Ernesto Guevara. Me invitaron durante toda esa jornada a hacer un recorrido del que me quedé con la impronta de la lucha de un ser excepcional de Sicilia, Peppino Impastato y con la energía de su sobrina Luisa Impastato que mantiene viva la memoria y la lucha de su tío que fue asesindo de manera bestil por un mafioso del propio barrio, y se su abuela qu no cedió ante la tradición de guardarle luto al hijo en sielncio, sino que no cesó su lucha hasta que el asesino fue condenado y la historia conocida en el mundo entero,  luchadores por un mundo mejor, lo cual en aquella época implicaba situarse frente a una Mafia despiadada, que más que casada con el poder, era poder en sí misma, una Mafia que se cobró vidas valiosísimas como también las de los jueces Falcone y Borsellino. María, de un pueblo llamado Vita, mujer tan amable como incansable lleva la asociación Pro Loco de la zona, y entre ella y la querida Agostina organizaron la jornada que arrancó con una visita a  la casa donde vivió Peppino Impastato y su madre, un museo memorial que al revés de otros museos continúa vivo, reuniendo los jóvenes valores del barrio, de pueblo, de la zona y de toda Sicilia, así como a los ex compañeros de Peppino, tanto de la radio como en su militancia anti mafia. Me recibió Luisa, una criatura divina de una gran ternura a la vez que de una fuerza y fiereza interior que se le intuye, estaban los compañeros de Peppino, un argentino que me hizo de traductor para las palabras que no me sé y que no se parecen al castellano, ante todo les aclaré que no comparto las ideas de Castro y de la URSS, por motivos que no venían al caso explicar, pero que me conmovía la gente que se atrevía a ser comunista en una situación tan adversa como en la de aquellos años,  y gracias a la sinceridad inicial, tuvimos una charla abierta y diáfana.

Me despedí de los ojos de Luisa  y fuimos a Palermo con dos universitarios a a recoger a dos amigas suyas universitarias también, todos estudiantes de medicina de distintas partes de Italia, que me dieron un paseo por  Palermo y de ahí fuimos al acto en Salemi, que fue muy emotivo, donde nuevamente dije que aunque no compartía las ideas y militancia admiraba la coherencia de todos ellos. La noche terminó comiendo unas pizzas exquisitas, y yendo a dormir a la casa de la familia de María.

Quizás no lo sepan, pero para mi fue un día muy especial, porque llevo toda la vida reñido con las figuras y los tótems emanados de  la obligación de ser como el Che, de ser comunista y fui testigo toda la gran traición a esos ideales, por lo cual me prodigo más en criticar aqullo, que en dirigirme a una audiencia simpatizante del comunismo; sin embargo entre esa gente humilde, de verdaderos callos formados en la lucha, en la solidaridad, gente de valores, me sentí en una familia ética, familia de afecto. En Siclia muchas cosas son al revés, no sólo la percepción sobre Garibaldi, los italianos dicen que en la punta de Trapani termina Italia, pero supe que en realidad, es ahí donde comienza.

Me marché de Sicilia a la semana de empezada la Travesía, que dura más de cuarenta días, con más de seiscientos cincuenta kilómetros y treinta y siete etapas, pero me fui con el corazón lleno de emociones, el bolsillo del pecho lleno de amigos, desde Mimma a Vincenzo, de Peppe a María, de Angelo a Gaetano, sonrisas, muchas risas, tranquilidad del alma, e increíblemente como le comenté a Peppe, una mejoría de la espalda y de las cervicales, me fui con ganas de no irme, de volver, de que cada día en la vida en las ciudades, en mi alrededor sea vea coronada de esa satisfacción, de esos pequeños detalles de afecto por la tierra, por el mar, por las demás personas, y por las cosas simples, aunque siga siendo sibarita de la comodidad de un buen sofá, nunca olvidaré, como cuando tras caminar media jornada bajo un sol impiadoso, llegamos un trozo de doscientos metros del camino sombreado y al poner el primer pie bajo la sombra, la sensación de placer, de agasajo, de festividad, de gozo que me embargó, se me antojó comparable al mejor de los banquetes, una simple sombra, pero con algunas ventajas, era gratis, saludable, y compartida con mis semejantes.

Antica Trasversale Sicula, 1) parte del grupo en Vita, 2) en la Casa de Peppino Impastato, con Luisa Impastato, y el primer día camino a Mozia
Antica Trasversale Sicula, 1) parte del grupo en Vita, 2) en la Casa de Peppino Impastato, con Luisa Impastato, y el primer día camino a Mozia
Antica Trasversale Sicula, 1) parte del grupo en Vita, 2) en la Casa de Peppino Impastato, con Luisa Impastato, y el primer día camino a Mozia

Antica Trasversale Sicula, 1) parte del grupo en Vita, 2) en la Casa de Peppino Impastato, con Luisa Impastato, y el primer día camino a Mozia

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18 octubre 2018 4 18 /10 /octubre /2018 15:53

 

 

 

 
 

 

 

       Reflexión de mi hijo Martín 

Tenemos un gran problema, y a pesar de su evidencia, nuestro esfuerzo por resolverlo está siendo escaso. En la sociedad moderna consumir es imprescindible, es la forma en que obtenemos algunos de los recursos que necesitamos para sobrevivir, productos que mantienen nuestra higiene, otros que nos sirven de herramienta en el ámbito académico y laboral y finalmente están aquellos a los que sabemos que podríamos renunciar en gran parte, y que aún así no hacemos más que acrecentar su consumo. Efectivamente, me refiero a todos esos artículos de moda, toda esa comida que compramos para que no falte o ese juguete que quería el niño por Navidades, nos hemos habituado a consumir mucho más de lo que podemos tan siquiera utilizar y por eso acabamos tirando tantos de estos productos, derrochando dinero y bienes muy limitados a los que muchos no pueden acceder y les son de vital importancia.

Tristemente, hemos llegado al punto en el que consumir es más importante que ayudar a nuestros iguales.

Sin embargo, y como la esperanza es lo último que se pierde, confío en que en los próximos años nuestra conciencia pueda llegar a ser superior a nuestros impulsos y ansias de obtener el placer inmediato. Confío en que, aun viviendo en una economía de mercado que por naturaleza elude a la ética, aún así redescubramos la solidaridad y nos responsabilicemos de nuestros excesos.

Si éste u otros cambios mejores no se diesen en un futuro próximo, creo que de forma irreversible nos dirigiremos hacia un colapso en nuestro sistema y ambiente, que está siendo otro de los grandes afectados por nuestra ausencia de autocontrol. Entonces sí enfrentaremos una situación horrible y caótica, una total distopía. 

Distopía

Distopía

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20 septiembre 2018 4 20 /09 /septiembre /2018 13:29

Me dio asma, abrí el cajón de la cómoda y había toda suerte de medicinas para aliviarla.
Me dieron ganas de ir al baño y sólo tuve que encender la luz, había jabones, toallas, espejos, ventanas y un suelo desde el cual poder saltar al vacío. Fuera del inodoro.
Me dio hambre y abrí la puerta de la cocina, la puerta de la nevera, la puerta del armario, la ventana y un bote de miel de una abeja sola, grande, gorda, inflada, tremebunda, que quedó flaquita, escueta, esmirriada, tras cagar todo la miel dentro de mi bote.
Me entró el sueño, ojo, no me dio sueño sino que me entró, así dicen los españoles, y con el sueño creo que es más así que con el asma, que también dicen "me entró el asma" sin embargo creo que el asma "da" sin embargo el sueño "entra" porque anda por aire, va de tendón en tendón, de bostezo en bostezo salta de un Pepe a una Uma, de un John a Luigi a una Li y a un Shakura, le da la vuelta al mundo y no para de entrar y salir. Bueno me entró el sueño y me tumbé en mi cama doble, de colchón más o menos cómodo, de los menos si se compara con los más, me tapé con mi edredón violeta, que del otro lado es lila, dos mujeres, dos amantes para una cama, Violeta y Lila o mejor Lille, una francesa. Sin sábana, con calcetines, acuclillado de lado y me dormí.
Me dio risa pero justo me llegó el recuerdo de cuando no tenía nada, porque me llamaron pidiéndome que me calle, que no hable, que me ahogue, que me reconvierta en aquel caracol, en aquella oruga, en aquel trozo de pelusa que no salía del rincón. 
No pudo salir la risa, pero sí pude acordarme de cuando no tenía nada, de cuando me fui hundiendo de a poco, de a poco o de a mucho, de a muchísimo, con un ritmo vertiginoso pero de a poco, rompiendo cada copa fina de mi vitrina pero muy lentamente, con estruendos, cimbronazos, explosiones, pero en cámara lenta, sin cámara, sin lentes, sin suavidad muy suavemente. 
Recordé mi ese, mi ese yo ahí tirado, mirando hacia cualquier lado, lascivo escapando en cada eyaculación, en cada pezón, mi yo aterrorizado, mi yo envalentonado, ese que se reía ese que no lloraba jamás, que tragaba adoquines yunques y ácido, hecto litros de ácido. Recordé aquel deambular sin bolso, de una casa a otra, de una habitación a otra, entrando a los botiquines de los baños a beberme el alcohol de la farmacia mezclado con agua y un poco de café, sin aspirina, sin hervir el agua como hacía antaño, reduciendo alcohol de botiquines, como quien entra al baño para darse un tirito pero de alcohol, y cada vez salía más risueño, mas colocado de pedo ¿qué ha sido? ha sido un pedo.
Vi a ese tirado en las calles, entre plantas, entre matorrales, con el dinero en los calzoncillos, con las llaves y el documento en los huevos, los huevos en el calzoncillo, vaya virgen santa, que calzoncillos y que huevos, y que documento y que poca plata y casi nada de llaves. Nada de llaves. nada de plata, y los huevos para nada.
Lo vi deambulando sin calzoncillos, sin huevos, sin plata con zapatos rotos, ampollas en los pies, sin automóvil, ni taxi, ni boleto de colectivo, ni hombro amigo, sin la más mínima ristra, traza, hebra, tizne de cariño, nadie lo quería a ese del sueño, del suelo, al que le entraba el miedo y no el sueño, porque no podía dormir en un banco de la calle, porque no tenía callos en el alma del hollín, porque no sabía apuñalar ni aguantar una paliza, el que era un trapo olvidado, ni víctima ni victimario, que pudo haber sido terrible, pero aguantó en el cráter del volcán, que nunca robó, nunca mató, nunca hirió, nunca meó los zapatos ni cagó la cabeza de los demás, con el calzoncillo en los documentos y la plata en la bragueta ¿Que llaves? ¿Qué plata? ¿Qué cariño de quién? 

Decían que era un perro rabioso, maltratado, sediento de amor.

Pero era un gato cazando pompas errantes, como sueños de jabón.

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31 agosto 2018 5 31 /08 /agosto /2018 20:02

 

Habiendo terminado su trabajo temprano en la provincia de Valladolid, Combi decidió quedarse en un hotel en Tordesillas, ciudad del toro, de su iconografía, y de la resistencia tradicionalista de la inquisición española que rodea a lo más retrógrado del toreo, y que se representa en el espectáculo del sufrimiento, argumentando el valor plástico del arte de la tortura, las cualidades estéticas de las poses y el valor del hombre frente a la bestia, que curiosamente, no dejan de ser ciertas del todo.

También la ciudad del tratado que dividió el mundo en dos, una mitad para Portugal y la otra para España.

   Cerca de Tordesillas está el puticlub mayor de Castilla y decidió darse una vuelta por allí. Se dijo a si mismo que sólo para ver de que se trataba, ver las chicas, juntar un poco de calentura, relevar la testosterona ralentizada. Se le ocurrió el truco de entrar hasta la barra y una vez allí, cuando se acerca el barman preguntarle hasta que hora abre el lugar y luego marcharse, de ese modo poder pispear tetitas y piernas, sin usar la nariz. Actividad pajeropinta.

 Una vez dentro se percató de que el sitio era mayor de lo que imaginaba, dos gorilas flanqueaban la puerta, los saludó con una media sonrisa entre cómplice y tímida y solo recibió como respuesta un leve movimiento de cabeza y una mirada que lo auscultó de arriba a abajo.

"Puedo reconocer a un policía, a un soldado o a un chivato, allí donde se produzca la mirada sin importar si proviene de unos ojos endurecidos, del este de Europa, por ejemplo rumanos como apostaría que son en este caso", se dijo Combi.

  A los portones de entrada le seguía un hall, donde dos máquinas expendedoras de dinero, una de cigarros, y otra de condones esperan el sonido de las monedas, detrás había una recepción donde una mujer gruesa, que no aparentaba ser la estrella del lugar, miraba sin embargo con una sonrisa mucho más acogedora que la de los dos grandullones de la entrada. Se escuchaba la música proveniente del salón contiguo, apabullado de luces rosadas y violetas, que ahorraban todo empeño a la sugerencia, sin embargo pensó que daba gusto oler el aroma de esos sprays dulzones, "como perfumes búlgaros" pensó.

Entró.

 En cuanto abrió la puerta se amplificó en sus oídos la música. Y lo que más le sorprendió resultaron ser las chicas. Eran casi todas muy jóvenes, esbeltas, con cuerpos  fantásticos, caras atractivas, había algunas ya no tan jóvenes pero igualmente bellas. Estaban vestidas con paños reducidos que permitían apreciar las bondades de sus naturalezas.

Las chicas paseaban de un lado a otro mirándose entre sí, a él, o a los pocos pasmados que se detenían ante tanto estrógeno dormido, una de ellas se detuvo a preguntarle su nombre y si quería tomar algo, Combi siguió moviendose en varias direcciones antes de dirigirse a la barra a hacer su numerito para tener la excusa de salir.  El club era espacioso y contaba con varios salones. Experimentó súbitamente una tremenda erección cuando una joven se le aproximó tanto que aplastó las tetas en su pecho y cruzó su pierna por entre las de él preguntándole si deseaba subir a una habitación con ella.

El camarero lo miró fijamente.

Combi se sintió increpado y le dijo que estaba buscando a una chica especifica que no veía por allí, entonces  salió del recinto nuevamente al hall de entrada, estaba excitado y no sabía bien que hacer. Lo que menos tenía eran ganas de marcharse de allí sin echarse un revolcón con cualquiera de las que había visto, todas le gustaban, todas le parecían lindas, estaba asombrado de su escasísimo sentido de selección. Esperaba encontrarse con el tipo de mujer que imaginaba había esos lugares, pero aquello hacía tambalear su moralina de entrecasa y sus convicciones de pacotilla. " Soy un hombre de familia", solía decir cuando, de vez en vez a la salida de alguna reunión,  los compañeros de trabajo, algo más aligerados de prejuicios que él, se proponían a salir en busca de algun buen rato, previamente abonado.

Entonces se dirigió hacia la entrada y les preguntó a los muchachos hasta que hora estaba aquello abierto -hasta las cuatro de la mañana, le dijo uno de los dos.

Subió al coche y salió con la intención de regresar al hotel, pero a los dos kilómetros, en vista de que el empalme no solo no se le había atenuado, sino que se intensificaba a merced de los juegos de la imaginación, pegó la vuelta, volvió a saludar a los dos gorilas, aunque en esa ocasión con menor despliegue de simpatía, quizás con el fin de resultarles más familiar, como si a los tipos duros los pudiese engrupir otro tipo duro.

Subió a a una habitación con una doncella de pelo liso castaño, hasta la cintura, que hablaba español con una voz de acento eslavo. El pantalón le  crecía dos tallas más por el lado de la bragueta. Nunca se la había visto de ese tamaño, deseaba inmortalizar el momento, que algún acontecimiento mágico, le permitiese conservar ese perfil combado, en en esos poco llamativos bultos que formaban los pliegues habituales de sus blue jeans. Aunque en realidad estaba más entretenido mirando la belleza con que estaría trincando tan solo un ratito más tarde, unos metros más arriba y un abismo más abajo. Ya le había soltado la suma que costaba su servicio  y ella se los había entregado a la de la recepción.

Combi, que no veía unas piernas así ni en la playa, ya que veraneaba en la zona de las familias, no podía creer que por solo esa suma de dinero estuviese a punto de comerse aquel conejito.

La habitación estaba a tono con todo lo demás. Primero le preguntó a la chica por su nombre y luego por su procedencia, de repente se vió adquiriendo una molesta y no tan deseada familiaridad, preguntandole si extrañaba su tierra.

La chica tenía un tatuaje en la espalda, un tanto revelador de que por más modosa que se mostrase, era lo que se dice coloquialmente, un tirito al aire. Le apretó las nalgas y se dieron un beso de lengua. Eso le hizo derramar unas gotas de semen.

Se llamaba Soriana, como si fuese de la provincia donde el poeta Machado gastó gran parte de su genio. Pero no era de allí, había hecho un largo viaje hasta esa carretera infernal.

Cuando le dijo que era rusa, Combi le preguntó: ¿ cag tiviá sabú? Palabras que había aprendido en Cuba. Ella pareció soprendida y le preguntó por qué sabía ruso, él le dijo que sabía unas pocas palabras porque las había aprendido en la isla caribeña. Ella por primera vez, se quedó mirandolo en serio a Combi, no al cliente, estuvo así un rato en sillencio, con las piernas cruzadas.

-Viví allí cuando niña, le confesó, echando un brazo hacia atrás y apoyándose en la almohada, tomando posición para una conversación más larga de lo previsto. Se había criado en La Habana, en el edificio Sierra Maestra de Miramar donde vivían las personas de los países socialistas de Europa, destinados a Cuba para trabajar como técnicos extranjeros,  de aquella época conservaba ese castellano impecable. El caso fue que la conversación dejó el derrotero profesional y comenzó a centrarse en sus vidas. Le contó que provenía de un pequeño pueblo que estaba maldito.

Si bien Combi, en parte lamentaba haberse alejado del subidón inicial, y empezó a temer que toda evidencia de la lujuria que iría a experimentar esa tarde, se reduciría a una poco novedosa mancha fría en su ropa interior, es cierto que también entraba en un territorio en cual sentía mayor comodidad, además de que en cierta forma le autorizaba a estar allí.

Soriana se tomó el tiempo necesario para contarle su historia.

Había viajado a Cuba por el trabajo de los padres, la madre, Svetlana, era una mujer liberal que encontró eco entre los cortejadores cubanos de Miramar y alrededores. En aquella isla nadie pasaba demasiado tiempo en su departamento, ni siquiera en el hotel Sierra Maestra.

Cuando regresó a Rusia se acabó todo lo que se daba, la familia era comunista a la manera en que se solía aceptar pertenecer a esa logia, más bien un rasgo identitario, de sentido natural de preservación de la especie. Lo cierto es que no sabían hacer otra cosa que ser obsecuentes del régimen; cuando todo acabó, los conocimientos de sus padres como técnicos no sirvieron de mucho en la nueva sociedad del tira y encoge hasta reventar las costuras.

El padre se dedicó a la bebida aún con mucho más ahínco que en Cuba con el ron y la vodka Limosnaya.  La madre lo dejó antes de constatar lo peor de la decrepitud, no aguantaba bien los puñetazos con las manos cerradas que le propinaba el marido en todo el cuerpo y se fue un día mientras el ruso vomitaba boca arriba en la cama. Su hermano fue preso a una cárcel soviética, por dedicarse a vender pantalones vaqueros comprados con dólares que adquiría a través de los turistas, con tal suerte que al poco de caer preso, se despenalizó esa actividad comercial, pero no con caracter retroactivo, y tanto él como otros presos debieron sentir el rigor de los jefes mafiosos con semejantes panolis lavando ropa interior y vistiendo tutú de bailarina cada vez que los capos lo pedían, mientras en la calle la gente ya podía comprar y vender.

Ella encontró ese panorama desolador y se fue a la casa de una amiga. De ahí se fue a vivir al interior de Rusia y conoció un hombre amable con el que se casó y tuvo una cría.

Le contó que regresó a Moscú pero no había espacio para una madre joven que venía de un fracaso matrimonial y laboral. Entonces partió a Alemania con lo puesto, trabajó duro y aprendió alemán. Se tatuó un guerrillero en el brazo y una mariposa en la espalda, y aunque no mucho después se arrepintió de aquella marca gráfica bajo su piel, decidió no quitarsela, como testimonio de una época. Una vez en Hamburgo, tuvo problemas serios a causa de los papeles, Europa  desmejoró mucho después del Euro -dijo.

Un conocido de su madre, le presentó a un amigo que estaba buscando gente para trabajar en España, en la costa del Sol, necesitaban personas que hablaran ruso, a propósito de la vasta clientela que había comenzado a fluir en los últimos años en la costa española de nuevos ricos del Cáucaso, algunos exageradamente ricos y otros en vías de desarrollo. Le habían prometido que trabajaría en relaciones públicas de una importante cadena hotelera, al principio en la recepción y luego si demostraba tener madera, se iría abriendo camino en un ambiente de mucha pasta. No le escondieron que quizás el camino se hacía más rápido si estaba dispuesta a algún que otro intercanbio de secreciones. Cosa que ella, como era natural, ya sabía bien.

El único inconveniente, le dijeron, era su niña, no podía llevarla consigo. Por lo que hizo un viaje a ver a su madre y le pidió encarecidamente que cuidara de la nena, que ella le iba a mandar el dinero necesario para toda su manutención, e incluso un plus. La madre aceptó recalcándole que ese dinero sería indispensable para que no tuviese que entregarla a los de asuntos sociales.

Natasha, que resultó ser su verdadero nombre, sonrió, y dijo:

-No hay problemas babushenka, tendrás tu dinero.

Llegó a Málaga para trabajar como prostituta en un barco, y desde que llegó recibió una paliza, tan inesperada como fuerte, para que le quedase meridianamente claro que aquello no iba en broma, el encargado le aseguró que ahora les debía mucho dinero a la organización y que ella era libre de pagarlo e irse, pero que si se le ocurría escapar sin pagar buscarían a su madre y a su nena y harían borshea ambas.

Se acostumbró a vivr como pudo, como se hace cuando acaece una desgracia, sumada a una y mil traiciones, a un pasado escaso en alicientes, se acostumbró del mejor modo que pudo a sobrevivir. Llevaba dos años ejerciendo la prostitución en diferentes lugares de España, había bajado su categoría de puta de semilujo a puta de burdel decente, por culpa de su carácter, su mal humor y el inexorable paso de papá tiempo.

Una vez intentó escapar y dieron con la madre diciéndole que si se ponía en contacto con ella le dijese que esperarían  dos semanas a que regresara , antes de mandarla al fondo del río Volga. Regresó.

Durante aquel tiempo Natacha no pudo enviar el dinero que había prometido, y la madre debió procurarle a la nena, otra vivienda y familia, pero pensó en algo mucho más humano y mejor para la criatura que los organismos estatales de acogida de niños pobres de la Rusia post socialista, la cedió a una familia que deseaba con toda el alma tener una nena, y agradeció que fuese una niña que hablaba el alemán como el ruso, que tocaba piano y sabía hacer las camas.

La enviaron a Valladolid para que escarmentase, aunque con la promesa de que si en un año lo hacía bien regresaría a los buenos destinos soleados del paraíso español.

-Esta es brevemente la historia de mi vida- le dijo Natasha a Combi, quien hasta ese momento había respirado casi sin molestar a sus propios labios, entonces se permitió un suspiro, que más parecía la exhalación de un alivio que la de una pena solidaria.

En ese instante llamaron a la puerta y ella regresó diciendole que el tiempo había expirado.

Combi no salía de su asombro, Svetlana Natasha o como se llamase, le pidió perdón por no haber podido hacer un servicio corractamente y le rogó que no se quejase por ello, Combi la miró como pudo, hasta que quedaron sus ojos frente a los de ella, la tomó por los hombros con firmeza,  en su pecho se apretaron dos tipos de congojas, uno por aquella criatura y otro por sí mismo.

Pagaré otra hora, no te preocupes.

Ambos bajaron al hall de entrada y volvieron a subir al cuarto. Dentro de cada habitación la gente bajaba y subía las caderas y sus respectivas miserias. Parecía no haber sitio más alejado del amor, de la caricia, que aquella colmena de abejas lastimadas.

Combi tomó los datos que ella le indicó, y no se atrevió a dejarle su número de telefono por elemental cuidado a su matrimonio, a su trabajo, y a aquella mafia. Natasha terminó de darle los datos y le dijo que se relajara que lo trataría bien, estaba todo pago. Combi, le hizo un gesto con la mano, ni una grúa hubiese conseguido levantarle el exiguo colgajo en esas circunstancias.

Bajó las escaleras con ella de la mano. Cuando llegaron al rellano la miró y vio a través de sus inmensos ojos, en la oquedad de una mirada que contenía todos los rincones malolientes de los peores puertos de Europa, la evanescencia de lo que alguna vez pudo ser una súplica de auxilio. Pero se dió cuenta, que la mirada de Natasha había cambiado diametralmente en pocos segundos, se había alejado hacia el infinito, le dijo adiós, con cierta prisa por ir a por otro cliente; estaba otra vez en su combate.

Combi salió de allí decidido a ir hasta el final de las cosas.

Entró a comer a un restaurante buffet vegetariano, se dió un atracón. Se metió al cine que había en el centro comercial, daban una de la mafia rusa con Viggo Mortensen, pero la evitó atracandose de palomitas de maíz y refresco de cola en una sala donde estrenaban una de risas. De a poco se fué diciendo que no había demasiado que pudiese hacer que no fuese encontrar la manera de denunciarlo.

Al cabo de un par de años, le avisaron que la publicación de su libro era inminente, que debía irse preparando para entrevistas y conferencias. Se tomó unas vacaciones con su familia en Amsterdam. Cada tarde después de pasar un rato en los cofee shops, paseaban un rato por el barrio rojo, y se divertían con la manera en que los japoneses observaban atentamente a las chicas a través de las vidrieras, agachándose sin ningún pudor para observarles la entrepierna.

Combi pensó que quizás Natasha ya podría estar bien, que hasta los peores momentos pasan, y que en todo caso ella era una mujer muy fuerte. Mucho más que él, que al fin y al cabo no era culpable de nada.

-¿Ni responsable? se preguntó.

Pero a Natasha le habían agujereado el alma con semen helado, le frieron el cerebro, comieron su corazón y arrojaron su cáscara a los pies de una tarde castellana. No le quedaba jugo, solo hiel, acaso le había dado una de sus últimas tardes de recuerdos familiares, cosa que lo había marcado tanto a Combi que de un tirón escribió un trabajo de ficción sobre la problemática de la trata de blancas. Se dijo a si mismo que cuando juró llegar hasta lo último de aquel asunto, no se refería a algo distinto de aquello, aunque naturalmente, aquella postrera interpretación no conseguía tranquilizarlo del todo.

Estaba a punto de publicar sus reflexiones sobre esta forma de esclavismo moderno en el corazón del Primer Mundo, con la aquiescencia de todos los géneros, estratos sociales e instancias legales, con toda la moral, las religiones, la ética, y la justicia en conocimeinto de ello, tolerándolo y hasta promoviéndolo.

En su trabajo explicaba los traumas de aquella vida y sus posibles desenlaces. Pequeños toques en la puerta de su cordura con los nudillos de la suerte. A través de su obra, Combi estaba a punto de presentarse como un hacedor de justicia, como un ser con sensibilidad social, estaba a punto de creérselo.

Y a punto de cobrar por ello.

Luminoso club de carretera
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26 agosto 2018 7 26 /08 /agosto /2018 15:25

El lugar era sórdido, lúgubre, tenía aspecto de terminal, de última parada.

El chileno que se acercó con el plato coronado por una montaña de cocaína, tenía más anillas que un pino de los Apalaches, más arrugas que el mismísimo Barrabás, llevaba más tiempo haciendo el mal que la memoria de diez elefantes. había pagado con cárcel en Hamburgo y en su Chile natal, se enroló en un buque mercante y cuentan que tiró a uno por la borda, nunca pudieron acusarlo pero todos sabían que había sido él.

Ella era un encanto, frágil en apariencia, joven, de piel suave, recién llegada de un sol que no quema, de un agua que no resfría, de la gruta de los elegidos.

Con respecto a mi es mas difícil decir, yo no sé que era ni que parecía ser, no obstante ahí estaba, vivo, impertérrito ante la capacidad de resistencia, sin futuro ni pasado, sin bolso, sin párpados, sin tiempo que perder.

El ex marinero, ex presidiario y ex presunto homicida chileno, se nos acercó y me ofreció como era más o menos habitual unos tiritos de lo que su plato sostenía. Ella se nos quedó mirando a ambos, desapareció su virginidad y de muy adentro expelió la voz de una torre firme.

-No queremos , gracias- me miró y agregó- esta vez no.

De repente sentí intensas ganas de hacerle el amor, no de poseerla con recios embates garchariles, sino de desprender ese que se yo que llevaba atascado, adormecido, bloqueado en el resguardo de una pose de cierta fiereza más o menos poco creíble, me dieron ganas de acariciarla suspirando hasta llegar a una eyaculación más terrenal que cósmica. Pero me tomó por el brazo para bajar la escalera de aquel antro, y sumergirnos en la calle empedrada de San Telmo, hasta encontrar el primer café que invitaba a una pareja modélica a sentarse. Dejando atrás esos bares que eran la prolongación del plato del chileno o del toilette del tugurio, donde una vez, al cerrar la puerta, mecanismo con que se encendía la luz, una brillante, oscura, enorme rata aterrorizada empezó correr de un lado a otro de aquellos dos metros por dos sin encontrar salida, hasta que, aterrorizado yo también a mi vez, conseguí abrir la puerta antes que decidiese morder mis piernas flacas sostenidas por aquellas modestas raciones de mortadela, patys y alfajores baratos.

Me dijo- Eres un diamante en bruto, pero si no dejas eso no podemos seguir, ahora bien, si decides dejarlo siempre estaré a tu lado- esas palabras fueron mágicas, porque ni siquiera los mejores mentirosos pueden decirlas sin titubear, es imposible mentir con algo así, es casi imposible decir algo así.

Todavía me quedarían años de sostenerme a las baldosas henchido de espirituosos para asegurarme de que no caer más allá del suelo, pero tiré por la ventanilla de mi cuarto hsta la última mota de talco de luna que me quedaba en la mesita de luz y sentí una paz extraña en mi pecho: se acabó.

Me di cuenta por primera vez de que incluso yo, tenía limites y que en cualquier momento la pelada de la guadaña podría girarse de repente, clavar su mirada en mis ojos y señalar con su falange huesuda ese camino entre temido y enigmático que todo curioso poco amante del equilibrio ha tenido entre sus ensoñaciones.

La última vez que supe de aquel chileno, lo estaban esperando en un bar de música para debatir con énfasis acerca de algún serio malentendido, tras lo cual decidió abandonar la ciudad. Más o menos por esos días fue la última vez que vi aquella calle plagada de posibles papeles plateados entre los adoquines, de gatos portadores del alma de los viejos guapos que peleaban a cuchillo con un pie atado al de su contrincante, aquel templo de la pisada nocturna, y de ahí en más, viví mis mejores años simulando que protegía a aquella mujer para poder ser el protegido, y las mañanas, las caricias y la promesa cumplida me hicieron mejor persona.

Hoy miro sin rencor el pasado, hoy recuerdo otras promesas y otros esfuerzos y me siento afortunado, el torrente que me embargó desde aquella torre, regresa cuando es menester como un bumerán, como las buenas y las malas acciones. 

Sí, costó, pero valió la pena.

Adoquines de San Telmo
Adoquines de San Telmo

Adoquines de San Telmo

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9 junio 2018 6 09 /06 /junio /2018 09:33

Lo recomendable para llegar sin rasguños es tomar precauciones y no acercarse a los riscos, mantenerse a distancia del fuego, dejar bien amarrado el barco, cerrar la puerta con llave, pestillo y si se tercia, conectar alarmas, nadar cerca de la orilla, evitar discutir, mantener las formas, ser educado, comedido, recatado, sometido, arrugado, perforado, sintetizado, camuflado e ignorado, llevarse bien con todo el mundo, ser cordial, amable, no quejarse, no reaccionar, no molestar, no incordiar, no desestabilizar, no dar la nota, no poner el acento, no sacarse la camisa, los calcetines, los zapatos, los pantalones, los calzoncillos, los ojos, ni los dientes en el parque, decir felicidades, decir buen día, decir que suerte, decir me alegra por ti, decir permiso, decir hasta luego, decir te amo, te necesito, tu luz me embarga, tu energía me envuelve, decir primavera, decir bendiciones, traiciones, mansiones, canciones, pendones, y no decir maldiciones, pezones, cagones, nubarrones, rayos, centellas, me aburres, me atormentas, me dañas, me vacías, me destrozas, me enloqueces, me desgarras, me importas un carajo, me das pena, lástima, asco, ira; lo más fácil es llevar bolsa al mercado, llevar silencio a la sala de espera, llevar paciencia a los comicios, llevar resignación al juzgado, llevar la cruz y el clavo, llevar la daga de la oscuridad, llevar el cadáver de la madrugada, lavar la ropa manchada, taparse con la sábana, mear dentro de la taza, no hacer ruido con la sopa, dejar tranquilos los mocos, las pajas, las ganas, las ansias, los sueños, la garra, la caza, el alma, y llenarse de suficientes pausas, de bastas, de equilibrios, de vueltas armónicas, acompasadas, ordenadas, salteadas, cerradas, burladas, orinadas, defecadas, dopadas, envenenadas, aterrorizadas y saneadas.

Y al cabo, llegar al cajón impolutos, vírgenes, y acaso un poco oxidados por tanto desuso.

 

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9 junio 2018 6 09 /06 /junio /2018 07:28

Al muy poco de estar en Buenos Aires ya había olvidado la cotidianeidad de la isla, entre cafés, comilonas, visitas a familiares que no veía hacía mucho tiempo y otros que nunca había visto, las nuevas amistades y las nuevas libertades. 
A la medianoche en la pizzería El Pillín, en Balcarce y Garay, bajaba una chica bien armada por delante y por detrás a buscar un par de pizzas gratuitas, o casi, solo le costaba hacerle una felación al gallego dueño del boliche y que la chica le hacía sin inconvenientes  Yo había tejido una amistad típica de beodos con el dueño y los personajes que allí se juntaban a jugar al truco y a cantar tango una vez que cerraba las puertas al público, una noche me invitaron a participar de la ronda de personas que pasaban al baño para ser atendidos con generosidad por los labios de la dama deglutidora de pizzas entre otros sólidos. Rechacé la oferta lo mejor que pude. Pero la chica esa noche se quedó a cantar tangos, entonces supe que su nombre era Laura, y tomamos vino hasta muy entrada la noche, cuando salimos del bar ella me dijo que vivía en el edificio de al lado al que yo estaba parando, subí a su casa a fumarnos unos porros y echarnos unas refriegas amistosas. Con la cantidad de vino que llevaba encima no me había fijado si se había lavado la boca después de efectuar en reiteradas ocasiones su forma de pago. En su habitación apareció otra muchacha, que resultó ser su pareja, e hicimos el amor los tres, con la torpeza y la desinhibición propias de la borrachera, la panza llena y el corazón contento.
Al día siguiente cuando nos despegamos del catre, dos muchachos salieron de una habitación pidiendo un pedazo de pizza, y armando un porro mañanero, entonces Laura me contó que uno de los chicos era su sobrino, y que chica que entonces era su pareja había ido a dormir la primera vez a aquella casa como amante de su sobrino, y que el actual amante de éste era el hermano de su novia. “Vaya familia,-pensé- habría jurado que los Guevara éramos singulares”.
Laura me dijo que si quería podíamos hacer una fiesta todos juntos en la cama, le respondí que no, le confesé que aún cuando yo sabía que estando dormido cualquier lengua que resulte ser la que lamiese mi glande ocasionaría una erección idéntica, prefería en vigilia la elección del retozo con mujeres por aquello de la costumbre y los prejuicios.
Muy atentos, lejos de incomodarse con mi declinación me invitaron a tomar un trocito de cartón que contenía ácido lisérgico, lo coloqué bajo la lengua como me explicaron, y al rato estaba viendo dobleces cubistas en cada objeto, riendo de una manera intensa, carcajadas de afuera hacia adentro, disfrutando como enano de la risa y los colores, de las azoteas de Buenos Aires, con los aires de novedosas pequeñas libertades reconfortantes.
Al cabo de un par de horas, colocado de ácido por primera vez, con resaca y fumado aún, bajé con el ascensor para cruzar la puerta y pensar si subir al departamento de mi padre, que tras una larga estancia entre rejas retomaba una relación de pareja tan difícil como aburrida. Era mediodía, no les había avisado que me quedaría fuera, así que preferí darme una vuelta por el barrio y sus parques para subir con cara de ciudadano.
Nunca más vi a Laura ni a los particulares exterminadores de pizzas, aunque la imagen de aquellos cuatro y yo desayunando porciones recalentadas, colando ácidos, fumando porros en cueros y haciendo el amor como conejos entre tías con sobrinos, sobrinas y cuñados, más de una vez me acorraló de súbito auxiliando a esas fantasías mustias, ya alejadas del salitre habanero, de mis aires buenos queridos y del avistamiento de aquellas libertades perturbadoras.

Parque Lezama, San Telmo.

Parque Lezama, San Telmo.

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31 mayo 2018 4 31 /05 /mayo /2018 11:38

 

 

Ronnie vivía también en aquel edificio de veinticinco plantas, el Hotel Habana Libre, en el piso 19, yo vivía en el 21. Mi hermanos, mi madre y yo ocupábamos dos habitaciones desde las cuales se veía el Hotel Nacional, el edificio Foxa y el Someillán, daban al mar, en una tercera que daba a la otra cara de la ciudad, mostrando el barrio de El Vedado noqueado por la Revolución, dormía mi abuela. Ronnie era hijo de Huey Newton, quien fuera cofundador de los Panteras Negras norteamericanos, una agrupación del poder negro de moda por aquellos años convulsos, ellos estaban exiliados como nosotros. En el Hotel había varios cabecillas de organizaciones revolucionarias a nivel mundial cuyos hijos terminaban formando una pandilla, pero ninguno tan perfecto como Ronnie, a excepción de Fernando y por supuesto de mi.

Pasábamos el día incordiando a la mayor cantidad de personas posibles, ya tirándoles grampas con hondas desde el segundo piso a los que se sentaban a disfrutar de la lectura de un plomizo Granma aderezado con el aire acondicionado en el lobby, o lanzándoles limones desde la parte trasera de la piscina a la calle o huevos desde el piso 21 para que se llevasen un buen susto antes de regresar a sus casas a cambiarse la ropa salpicada de yema, también rompíamos la paciencia saltando de balcón en balcón y lanzando lo que fuese que encontrásemos secándose sobre los sillones de paja y cobre, pantalones, camisas, ropa interior o caracoles cobos y aguas vivas como los que atesoraba aquel ruso, que un día me descubrió tras haber lanzado sus preciados moluscos desde el piso 21 al tercero solo para verlos hacerse añicos, formando un lío que alcanzó al Administrador del hotel, a la milicia y a nuestros mayores.

Carlitos Cecilia vivía cerca del parque Aguirre, a más o menos un kilómetro del hotel y muy cerca de la Anexa a la Universidad, la escuela Felipe Poey donde ambos estudiábamos. Éramos compañeros inseparables en el aula y mientras duraban los paseos por la calle, una vez que entraba al Hotel la realidad cambiaba, mudaba hasta el tono de la voz, retornando hacia lo que quedaba ya de argentinidad en aquellas consonantes sostenidas y vocales abiertas. Eran otros los amigos, los juegos también, todo ello había nacido de la perversa orden dada por la administración de que al hotel no podía entrar ningún cubano, ningún niño amigo de la escuela podía subir a las habitaciones, a menos que fuese familiar de un alto dirigente, y aún así precisaban un pase. La administración tenía orden de que los de afuera no pasasen de solamente sospechar los privilegios que disfrutaban los de adentro. Esta ordenanza me ayudó a desarrollar una doble vida, como Mr. Hyde y el doctor Jekyll. Mientras afuera del hotel iba creciendo a pasos ligeros y convirtiéndome en el justiciero de mis amigos y un habanero más, dentro me transformaba en un malcriado muchacho privilegiado. Durante medio año que estuve faltando cada tarde a las clases de séptimo grado en la Felipe Poey, iba primero a casa de Carlitos y nos dedicábamos a cocinar tortillas con lo que hubiese en la alacena, el padre era militar y conseguía latas de alimentos que con la libreta no se conseguían así que contábamos con cierta variedad de ingredientes.

Por supuesto todo aquello era limitado y un día la madre pegó el grito en cielo, entonces Carlitos les tuvo que decir lo que hacíamos aunque se echó la culpa a sí mismo garantizándose un buen castigo, cuando en realidad el instigador de las faltas a clase y las prácticas culinarias era yo. Aquel desliz no trascendió al hotel y pude continuar faltando a clases, tenía pesadillas en que me descubrían, que me enviaban un miliciano de los que me solía detener por hacer gamberradas en el Hotel y averiguaba que no había ido a clases en los últimos meses, se lo contaban a mi padre que estaba preso en Argentina pensando que nos estábamos formando como buenos revolucionarios y le causaba un buen disgusto; me despertaba transpirando como casi día de mi vida después de aquellos años.

Entonces fue que Carlitos me invitó a la primera fiestecita con música lenta de noche y me presentó a Moraima, que me tenía fichado, a mi me venía bien cualquier cosa para dar mi primer beso, que solamente lo había podido casi saborear en la persona de alguna prima o la hermana de algún amigo del Hotel a hurtadillas, robado en un trance de algún juego. Fue la primera vez que toqué pechos y sus pezones, los sobé los apreté con fruición, difícil olvidar aquella emoción, me entusiasmé bailando con la entrepierna de Moraima, el vaquero fue áspero, por suerte ella tampoco sabía mucho de nada, ya que yo solo había besado mi antebrazo practicando con un morreo prolongado. Carlitos ya había “apretado” alguna vez y hablaba de ello como de algo muy especial, desde aquel día constaté que era mágico, incluso hoy pienso que el placer de ciertos besos en posición de pie, estando vestidos, pudiendo permitirse alguna licencia como acariciar los senos o tocar el sexo por encima de la ropa dejando a la mano explorar entre cinturones, botones, cremalleras y telas pueden ser momentos exquisitamente tensos, para aquellos y otros blue jeans menos acartonados. Después de esa ocasión estuve como dos años sin apretar, pero me servía de aquella experiencia que se enriquecía con el aporte de la imaginación cada vez que la sacaba a pasear en los relatos varoniles, para el simple recuerdo o para las mullidas memorias noctámbulas. Carlitos me había hecho un favor impagable, lo probó el tiempo que debió transcurrir hasta que pude acceder por propios medios al área íntima de otra chica. Los cuatro meses siguientes ya que no podía ir a su casa me iba al zoológico de el Nuevo Vedado y llegué a hacerme amigo de un chimpancé que tendría mi edad, era mi alter ego. Llegué a tener una gran amistad con ese animal, el cuidador me permitía acercarme hasta la jaula y pasábamos horas mirándonos e intercambiando las galletitas para monos que yo le daba y las media naranjas que él me convidaba, se podía hablar con él sin tapujos, desde la una hasta las cinco había muy poco público. Entonces, además de la realidad del hotel, la de la calle y la escuela incorporé una tercera, las rejas del mono estaban también en mi cara. Aquel preso no hacía reproches por conducta poco revolucionaria.

Ronnie tenía dos años menos que nosotros pero nos sacaba media cabeza. Una tarde que me había visitado Carlitos y que había conseguido en la administración que le diesen un pase que no permitía entrar a restaurantes pero sí estar por el Hotel, Ronnie quería jugar a los escondidos en el Salón de los Embajadores, que estaba restaurándose y era inmenso, repleto de recovecos. Yo estaba entre la costumbre de seguir a mis amigos del hotel en los juegos aún infantiles, y el pudor que me daba con Carlitos ya que dados sus hábitos suponía que consideraría aquello un poco ridículo. Pero él mismo se enchufó y se entusiasmó de tal manera que llamamos a otros muchachos.

En una ocasión le tocó a Carlitos buscar, Ronnie y yo habíamos subido por una escalera de cabillas de hierro incrustadas en la pared dentro de un agujero con paredes de cemento. Estaba oscuro en lo alto y al acercarse, Carlitos se persuadió de que arriba había gente y empezó a decir nombres al azar para ver si adivinaba, lo cierto es que si acertaba no había manera de ganarle corriendo hasta la base, así que había que intentar que subiese hasta arriba y saltar del agujero al mismo tiempo que él para tener una chance. Comenzó a subir y de repente dijo el nombre de Ronnie. Y cuando comenzó a bajar, yo vi como caía un líquido sobre él y al girar la cabeza buscando a Ronnie, vi que había pelado la habichuela y estaba orinando a mi amigo en la cabeza, mientras Carlitos decía- -Oye que mal perder tienes, no me eches agua que me estás empapando!. Entonces, agudizó el olfato y el tacto y se dio cuenta de que no era agua, yo reprendí a mi amigo del Hotel que reía a carcajadas y bajé inmediatamente a contener a Carlitos, eso para él era una asunto muy serio, en Cuba cualquier líquido en la cara que no fuese agua o ron podía saldarse con más que una buena pateadura, ¿pero una meada?, por una meada hasta yo habría sido capaz de soltar los puños.

A duras penas conseguí llevarme a Carlitos abajo, rogándole que no formase lío ya que encima llevaba las de perder. Lo acompañé hasta su casa y no dejé de escucharlo decir que lo buscaría por todos lados y le metería con un bate de beisbol, con una cabilla, con una chaveta, en fin estaba hecho un basilisco, y aunque Ronnie lo había hecho en broma yo había visto a Carlitos en la escuela fajarse con una pandilla y empatar la bronca.

Provenían de sitios irreconciliables como el Hotel y la Ciudad, pero eran mis amigos.

Cuando regresé al Hotel lo fui a buscar al piso 19 y me dijo que lo sentía mucho, que fue un impulso y que iría a pedirle perdón, le dije que encima si había bronca culparían al cubano, me dijo que no, que él diría lo que pasó, Ronnie era muy noble, puro corazón pero ese día había perdido un tornillo.

A los pocos días, llevé a Carlitos al Hotel nuevamente para que sellaran las paces, pasamos el día charlando y esa tarde hasta fuimos a comer los tres a la cafetería, nadie nos dijo nada, ni la camarera ni el capitán, nadie molestó aquella ocasión.

La semana pasada mi hijo pequeño me preguntó si yo tenía amigos que ya hubiesen muerto, íbamos caminando por la cima de un monte, un viento fresco me dio en la cara y recordé cuando regresé de Argentina a Cuba a los 22 años y fui a buscar a Carlitos a su casa, entonces la madre, el padre y el hermano me dijeron - Si quieres verlo ven con nosotros ya mismo , porque le quedan dos o tres días. Y en el camino al oncológico me contaron que había desarrollado un tumor bestial en los pulmones, y que le habían amputado un pulmón, un brazo, un omoplato, una clavícula y ya habían desistido.

Entré en la sala y lo vi en la cama, me recibió con una sonrisa, no recuerdo lo delgado que estaba ni su estado gravísimo, sino su ánimo, me abrazó al borde de la cama y me dijo: -Martín tú me ves así, pero cuando salga de aquí formamos una fiesta, yo voy a seguir tocando el piano con el brazo que me queda, incluso mejor y tú verás que las muchachitas se van a volver locas con nosotros- Pasé una hora con mi amigo que estaba lleno de vida, los ojos le brillaban y su voz era fuerte, a un paso de la muerte no estaba rendido. Salí de aquel cuarto vacío y en efecto cuando regresé a su casa al cabo de una semana ya había fallecido.

Hace dos años mientras recordaba algún pasaje del Hotel Habana Libre, me dio por buscar a mi amigo Ronnie por enésima vez con la ayuda de internet, cosa con que otrora no contaba. Le había perdido la pista hacia el año 1978 cuando él había regresado a los Estados Unidos, ya que el padre había preferido enfrentar la prisión y que la familia viviese en su tierra. Varias veces había intentado saber que habría sido de su vida, sin éxito una y otra vez.

Tiempo atrás habían matado al padre en extrañas circunstancias y hace muy poco supe que posiblemente Ronnie habría presenciado quien había sido. Y entonces me enteré de que un par de años más tarde, cuando estaba por celebrarse el juicio del presunto asesino de Huey, unas pocas horas antes de declarar su hijo, mi amigo Ronnie, quien desde los diez años hacía cuarenta largos en la piscina del Hotel Habana Libre para poder quedarse hasta más allá de las siete de la tarde jugando con los demás muchachos, como condición que le ponía su viejo, apareció ahogado en la orilla de un lago cercano al lugar del juicio.

Lo supe diecinueve años después de los hechos.

-Sí- le dije a mi pequeño vástago- se llamaban Carlitos Cecilia y Ronnie Newton.

Y entonces recordé el día del juego de los escondidos. Y el Habana Libre, y la fiestecita con Moraima, los chicles norteamericanos y las tortillas de carne rusa y me acordé de aquel chimpancé que cuando nos quedábamos mirándonos durante eternidades, no quedaba claro a cual de los dos aprisionaban más aquellas rejas.

Quien también fue un buen amigo y que ojalá continúe con vida.

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